di Giorgio Giannini
Nell’antichità la conca reatina, completamente circondata da catene montuose (a Sud ed Ovest dai Monti Sabini ed a Nord ed Est dai Monti Reatini, con il massiccio dei Terminillo, alto ben 2216 metri) era interamente occupata da un grande lago, generato dal fiume Velino (che nasce dal Monte Pozzoni, nel Comune di Cittareale, in Abruzzo) e che pertanto i Romani chiamavano Lacus Velinus. Infatti le acque del Velino, ricche di carbonato di calcio, avevano prodotto, nel corso dei millenni, per sedimentazione, uno sbarramento alla confluenza con il fiume Nera, che scorre nell’Altopiano ternano, in Umbria, e poi si getta nel Tevere. Pertanto, nel corso del tempo le acque del Velino avevano inondato tutta la conca reatina, che era diventata una zona paludosa, che causava epidemie di malaria e rendeva la regione insalubre.
Nel 290 a. C. il Console romano Manlio Curio Dentato conquista la Sabina ed inizia la bonifica della conca reatina, per ricavarne terreno fertile per le coltivazioni. Fa tagliare lo sbarramento di sedimenti calcarei, nella località chiamata Marmore, realizzando nel 271 a. C. un canale, chiamato dal suo nome Cava Curiana, che consente, prima alle acque del Lacus Velinus e poi a quelle del fiume Velino, di scaricarsi con un triplice salto (cioè con tre cascate) nel fiume Nera, superando un dislivello di ben 165 metri.
La realizzazione del canale è stata sicuramente una grande opera ingegneristica per il tempo in cui è stata realizzata. Tuttora la cascata è la più alta d’Europa.
Dell’antico Lacus Velinus rimangono quattro laghetti: il Lago di Piediluco; il Lago di Ventina; il Lago Lungo; il Lago di Ripasottile, che mitigano il clima. Pertanto i terreni ricavati dalla bonifica del Lacus Velinus sono molto fertili, come scrivono Varrone, Plinio e Virgilio, e sono destinati alla coltivazione non solo di cereali, ma anche di cereali e di frutta.
Però la grande massa di acqua che si scarica nella Valle del Nera, nel periodo delle piogge autunnali ed invernali ed in seguito allo scioglimento della neve caduta sulle montagne che circondano la conca reatina, causa ricorrenti inondazioni anche della città di Terni, creando così una dura contesa tra i Reatini ed i Ternani.
Il Console romano Appio Claudio Pulcro porta il risolvere il problema all’attenzione del Senato, che lo discute nel 54 a. C. con un contraddittorio tra le due popolazioni; la posizione dei Ternani è difesa da Quinto Ortensio Ortalo e quella dei Reatini da Cicerone. I Senatori però non prendono alcuna decisione e quindi la situazione rimane immutata.
Dopo la caduta dell’Impero romano nel 476, da parte di Odoacre, che depone l’imperatore Romolo Augustolo, la Cava Curiana è lentamente ostruita per la continuazione del processo di sedimentazione calcarea e per la carenza di manutenzione, provocando così di nuovo l’impaludamento crescente della Piana Reatina, tanto che San Francesco, secondo il suo biografo Tommaso da Celano, si sposta in barca tra Greccio, Poggio Bustone e Rieti.
Nel 1422 il Papa Gregorio XII fa ripristinare il canale per scaricare di nuovo le acque nel Nera. La nuova opera è chiamata, dal nome del Pontefice, Cava Gregoriana.
Poiché il processo di sedimentazione calcarea continua incessantemente, nel 1545 il Papa Paolo III incarica di bonificare la Piana Reatina l’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, che muore per malaria durante i lavori. Viene scavato nello sbarramento calcareo un nuovo canale, chiamato, in onore al Pontefice, Cava Paolina, che però risolve il problema solo per una cinquantina di anni. Si pensa quindi di ampliare la Cava Paolina e di costruire un ponte regolatore, una specie di “valvola” per regolare il deflusso delle acque.
Il Papa Clemente VII incarica di realizzare questa opera l’architetto Giovanni Fontana, fratello del più famoso Domenico. Il nuovo canale, chiamato in onore del Pontefice, Cava Clementina, è inaugurato nel 1598, ma anche questa opera non risolve il problema dell’impaludamento della Piana Reatina, che causa frequenti allagamenti, più o meno ampi, che minacciano le coltivazioni, anche del guado, usato per tingere di azzurro le stoffe.
Nel 1787 l’architetto Andrea Vici, su incarico del Papa Pio VI, modifica i tre balzi della cascata, dandole l’aspetto attuale e risolvendo gran parte dei problemi.
Nell’Ottocento si inizia a sfruttare la cascata per la produzione di energia idroelettrica, anche a servizio delle Acciaierie di Terni, costruite nel 1884.
All’inizio del Novecento, Guido Rimini, Ingegnere Capo della Provincia di Perugia (di cui la zona di Rieti fa parte fino alla creazione della Provincia reatina nel 1927), capisce che il problema dell’impaludamento della Piana Reatina si può risolvere non aumentando il deflusso delle acque verso la Piana Ternana con lo scavo di un canale più profondo, ma diminuendo l’afflusso delle acque nel fiume Nera, contenendo le acque degli affluenti del Velino. Così nel 1916 è pubblicato il progetto che prevede la costruzione di due dighe sui fiumi Salto e Turano, per regolamentare l’afflusso delle loro acque nel Velino e nel contempo consentire la produzione di energia idroelettrica, a servizio soprattutto delle nuove Acciaierie di Terni.
Nel 1936 inizia la costruzione delle due dighe, che sono ultimate in tempi brevi: quella del Turano nel 1938 e quella del Salto nel 1939, dando origine ai due laghi omonimi. Il lago del Turano è collegato a quello del Salto con un canale artificiale lungo 9 km e del diametro di 2,5 metri, scavato nel Monte Navegna, con una portata complessiva di 35 m³/s che alimenta la centrale idroelettrica di Cotilia, attraverso una galleria forzata lunga 11,8 km e del diametro di 4 metri.
In questo modo è stato risolto definitivamente il problema dell’impaludamento della Piana Reatina, anche se si è perduta gran parte delle Valli del Salto e del Turano, con la sommersione anche di alcuni paesi.
Durante l’occupazione nazista, dal settembre 1943 al giugno 1944, i tedeschi avevano progettato la distruzione delle due dighe, che però è stata scongiurata grazie all’intervento delle formazioni partigiane operanti nella Sabina.