LE LACRIME NON BASTANO
di Giuseppe Manzo
Il Giorno della Memoria, 27 gennaio, è una ricorrenza internazionale in commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Infatti settantaquattro anni fa, il 27 gennaio 1945, le truppe sovietiche della sessantesima Armata del “Primo Fronte ucraino” comandate dal maresciallo Ivan Konev, in marcia verso la Germania, arrivarono per prime presso la città polacca di Oswiecim (in tedesco Auschwitz), giungendo davanti ad un cancello, quello del campo di Auschwitz – Birkenau, dietro il quale si celavano storie terribili ed immagini raccapriccianti di uno sterminio di massa pianificato. In qualche documentario, indimenticabile, che racconta l’arrivo dei salvatori e la liberazione senza felicità dei settemila sopravvissuti, abbiamo visto con sgomento soldati, prima russi e poi americani, sbigottiti davanti ai cumuli di cadaveri, ai corpi troppo magri di chi faticosamente cercava di stare in piedi, a quegli occhi che erano stati testimoni del male assoluto. Non era stata pianificata da menti aberranti solo la morte, ma soprattutto l’annientamento con la più completa umiliazione delle vittime, che infatti venivano chiamate “pezzi”(in tedesco stucke). Persone “colpevoli” solo di essere ebree, disabili, omosessuali, di etnia rom o di idee politiche diverse subivano prima un processo di spersonalizzazione e poi la morte e la cremazione. Moltissime persone arrestate e deportate, che in quel terribile momento, mentre i soldati nazisti urlavano frasi incomprensibili, invocavano Dio o forse si chiedevano dove fosse, avrebbero di certo preferito la morte al viaggio doloroso di giorni stipati nei vagoni merci, in condizioni bestiali, e alla separazione dalle famiglie, alle percosse e alle sevizie, alla fame, al lavoro forzato e al freddo intenso degli inverni polacchi. Dobbiamo ringraziare i soldati che filmarono con coraggio quelle immagini consegnandole così al mondo incredulo e alla storia. Bene fecero gli americani, come mostra un filmato, a far sfilare i cittadini tedeschi, anch’essi increduli sbigottiti e piangenti, in uno di quei campi a Buchenwald, uno dei più grandi nella città che fu la casa di Goethe. Qui gli americani trovarono in vita circa 21 mila persone, tra le quali oltre 900 tra bambini e adolescenti, come raccontò alla radio un giornalista americano al seguito delle truppe, Edward R. Murrow, che descrisse l’odore di morte insopportabile del campo e per contro il sorriso dei ragazzi sopravvissuti, pur segnati dai patimenti e dalla morte di tanti compagni. Ognuno di loro sembrava voler gridare “io voglio vivere”. Sono queste di sicuro le parole che hanno pronunciato in silenzio ogni minuto i sopravvissuti a quell’orrore, sono queste le parole che hanno mantenuto in vita ad Auschwitz Birkenau una bambina di nome Liliana Segre, che in quel campo aveva perso il padre Alberto, partito con lei in quel terribile viaggio iniziato dal binario 21 della stazione di Milano, tra l’indifferenza di tantissimi italiani che s’inchinavano alle famigerate leggi razziali fasciste del 1938. Liliana Segre da vent’anni porta nelle scuole la sua testimonianza, ricordando a tutti il bisogno di “coltivare la memoria affinchè non si ripeta più”, e per questo chiamata dal nostro presidente Mattarella a entrare in Parlamento, come senatrice a vita. Liliana Segre, nata nel 1930 a Milano, è una delle ultime testimoni delle atrocità di cui è capace l’uomo quando gli altri si girano dall’altra parte. L’indifferenza, com’è scritto sul muro del binario 21 della stazione di Milano, è il vero male. Quella di ieri che ha permesso l’Olocausto e quella, certo più pericolosa perché più vicina a noi, di oggi. Una vera piaga che solo gli antidoti della memoria e della difesa della libertà di espressione possono guarire. Di qui l’importanza del pensiero di Liliana Segre “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”.