di Giorgio Giannini
In tutte le nostre città, grandi e piccole, ci sono piazze, strade, monumenti e lapidi, che ricordano i luoghi delle battaglie della Grande Guerra ed i nomi di molti Comandanti, alcuni dei quali probabilmente non meritano di essere ricordati, dato che hanno inviato al massacro, con estrema leggerezza, migliaia di soldati. Al riguardo ricordiamo che ad Udine, dove durante la Grande Guerra, prima della “disfatta di Caporetto”, aveva sede il Comando Supremo del nostro Esercito, affidato al “generalissimo” Luigi Cadorma, la piazza che portava il suo nome è stata intitolata piazza dell’Unità d’Italia, in seguito ad una iniziativa di un comitato di cittadini.
In molte nostre città ci sono anche piazze, strade, monumenti e lapidi, che ricordano le nostre avventure coloniali in Africa. Tra le lapidi ricordiamo quella che il regime fascista fece apporre in tutti i Comuni il 18 novembre 1936, per ricordare alla popolazione che nonostante “l’assedio economico”, cioè le sanzioni economiche decise l’anno precedente dalla Società delle Nazioni per condannare la nostra invasione dell’Etiopia, avevamo vinto la guerra, che aveva portato alla nascita dell’Impero fascista, proclamato solennemente da Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936 davanti ad un’enorme folla festante.
Da alcuni anni in alcune città si sono costituiti dei Comitati che hanno preso iniziative per cambiare il nome di quelle piazze e strade e per rimuovere quei monumenti e togliere quelle lapidi. Al riguardo, ricordiamo che nel 1949 il Sindaco di Bologna ha fatto sostituire tutti i nomi delle piazze e delle strade del quartiere Cirenaica (posti per celebrare la conquista della regione libica, strappata, insieme alla Tripolitania, alla Turchia con la guerra del 1911-1912), ad eccezione di via Libia, con i nomi dei partigiani locali caduti nella Resistenza al nazifascismo.
Sempre a Bologna, nel 2015, il collettivo “Resistenze in Cirenaica” ha organizzato dei trekking urbani, mettendo in discussione i nomi delle strade che fanno riferimento al nostro passato coloniale. Una cosa simile è fatta nel 2018 a Palermo con l’iniziativa “Viva Menelicchi!”
Nell’ottobre 2018, a Firenze è stata organizzata, con il progetto “Postcolonial Italy”, una visita guidata nelle strade e piazze collegate al nostro colonialismo, raccontando quello che era accaduto in quelle località.
Nel giugno 2020, a Roma la Rete “Restiamo umani” (formata da varie associazioni) ha fatto una manifestazione presso il cantiere della nuova fermata della linea C della metropolitana, in costruzione, in Via Amba Aradam (nel quartiere di San Giovanni) proponendo di cambiare il nome della fermata, denominata Amba Aradam (dal nome della strada in cui è ubicata), e di intitolarla a Giorgio Marincola, un partigiano romano italo – somalo (nato il 25 settembre 1923 a Mahaddei Uen, figlio di un sottufficiale dell’Esercito, che si era accompagnato ”more uxorio”- una consuetudine chiamata madamato- con una ragazza somala), ed ucciso dai tedeschi in ritirata il 4 maggio 1945, pochi giorni prima della fine della guerra in Val di Fiemme (Trentin
Nello mese di giugno 2020 a Padova alcune associazioni hanno promosso una passeggiata nel quartiere Palestro, mettendo in discussione i nomi delle strade collegati al periodo coloniale, spiegando cosa era accaduto in quei luoghi ed apponendo dei cartelli per ricordare i fatti ai passanti.
Nell’estate 2020, a Milano il centro sociale Cantiere ha lanciato la iniziativa “Decolonize the city!” , con lezioni all’aperto e azioni di street art, con la inaugurazione di una statua a Thomas Sankara (il giovane presidente del Burkina Faso- ex Alto Volta, assassinato nel 1987 dopo un colpo di stato patrocinato dalle potenze coloniali del suo Paese perché si era rifiutato di pagare il debito estero di epoca coloniale) nel giardino pubblico intitolato a Indro Montanelli, dove l’anno precedente era stato imbrattato con vernice rossa il suo monumento perché accusato di aver contratto un “matrimonio combinato” con una ragazza etiope di appena 12 anni, come aveva dichiarato in una intervista del 1969, affermando che “in Africa è un’altra cosa”, cioè che nelle nostre colonie africane si potevano fare quelle cose.
Nel settembre 2020, a Bergamo sono stati appesi dei cartelli alle targhe stradali che ricordano il fascismo ed il colonialismo, proponendo intitolazioni alternative.
Nell’autunno 2020, alla riapertura delle scuole, a Reggio Emilia l’associazione Arbegnuoc Urbani (che hanno mutuato il nome dai partigiani etiopi) hanno fatto una manifestazione davanti al polo scolastico Makallè, nella via omonima, insieme con gli studenti, per rinominare la scuola a Sylvester Agyemang, uno studente dell’istituto travolto ed ucciso da un autobus.
A metà ottobre 2020, a Torino si sono svolti i “Romane worq days” in onore della principessa Romanework (Melagrana d’oro), figlia primogenita dell’imperatore etiope Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937 dopo l’attentato al Vice Re Rodolfo Graziani insieme ad altri 400 notabili etiopi, e morta il 14 ottobre 1940 per tubercolosi, a 27 anni, nel capoluogo regionale piemontese.[1]
Purtroppo, facendo queste iniziative si incontrano molte resistenze da parte dei cittadini e dei politici, i quali affermano che “il passato non si cancella” (come la storia). Purtroppo, un monumento, una lapide, il nome di una piazza o di una strada, non ricordano solo il “passato” (che alcuni peraltro vogliono cancellare), ma sono anche il “presente”, perché esistono e sono sotto gli occhi non solo di chi abita nella piazza, nella strada e nella zona, ma saranno anche il “futuro” perché, se non si cambia la intitolazione o non si rimuovono, rimangono.
Inoltre, molto spesso, in seguito alla proposta di cambiare la intitolazione di una piazza o di strada o di rimuovere un monumento o una lapide si innescano accesi dibattiti politici, sia all’interno dei Consigli comunali sia tra gli abitanti, non solo quelli che risiedono nella piazza o nella strada, per cui quasi sempre si preferisce rinunciare a sostenere la proposta e non fare nulla.
Ci sono anche notevoli difficoltà burocratiche da parte dei Comuni, le cui Commissioni toponomastiche, incaricate di assegnare il nome ad una piazza o ad una strada oppure di apporre una targa commemorativa, cercano di evitare il cambiamento dei nomi perché poi ci sono tanti problemi concreti da risolvere, non solo da parte delle Amministrazioni comunali ma anche da parte dei cittadini, come, ad es. cambiare i documenti di identità.
Pertanto, la cosa più semplice che si preferisce fare, per non innescare dibattiti politici e non esasperare gli animi degli abitanti che sarebbero coinvolti nelle modifiche toponomastiche, è “lasciare perdere”, magari temporaneamente, per aspettare “tempi migliori”, come se il non parlarne possa risolvere il “problema”.
In diverse città, varie Associazioni stanno facendo un censimento delle piazze, delle strade e delle lapidi che celebrano il nostro passato coloniale, per poi decidere cosa fare, eventualmente “caso per caso”: o proporre la nuova intitolazione delle piazze e delle strade e la rimozione delle lapidi, oppure l’apposizione di cartelli che spieghino il “fatto” raccontato. Questa iniziativa è denominata “decolonizzare la città”, mutuando la parola “decolonizzazione”, usata per indicare la liberazione delle ex colonie dalla dominazione attuata soprattutto dai Paesi europei.
Comunque, il problema della rilettura critica della nostra colonizzazione coloniale non si risolve con la “decolonizzazione” della città. Occorre un’opera continua di sensibilizzazione, soprattutto degli studenti delle scuole medie e superiori, attraverso la informazione corretta ed obiettiva di quello che è stata la nostra politica coloniale, per fare, finalmente, dopo 80 anni dalla fine della nostra avventura coloniale in Africa (con la sconfitta in Etiopia nel luglio 1941 ed in Libia nel maggio 1943) “i conti con il passato”, sfatando alcuni miti che sopravvivono ancora oggi nella nostra memoria collettiva, come quello che “abbiamo portato la civiltà” nelle nostre Colonie africane, facendo strade, scuole ed ospedali, e per questo siamo stati benvoluti dalla popolazione locale come “italiani brava gente”. Pertanto, siamo stati “diversi” dagli inglesi, dai francesi, dai belgi e dai tedeschi perché abbiamo svolto in Africa una “missione civilizzatrice” di popoli “inferiori”, che in verità avevano una “loro cultura”, anche antica (come quella in Etiopia), seppure diversa, anche profondamente, dalla nostra.
Un altro mito che resiste tuttora è quello del “bravo italiano” in guerra, che si è comportato bene nei confronti della popolazione dei Paesi occupati militarmente. Questo è sicuramente vero in alcuni casi (come nella Francia meridionale, occupata dal nostro Esercito, dove i nostri militari hanno protetto gli ebrei che vi si trovavano), ma in altri casi, invece, soprattutto nei Balcani, abbiamo commesso “crimini di guerra”, anche se i responsabili non hanno pagato per i misfatti commessi. Al riguardo ricordiamo che il generale Mario Roatta, Comandante della II Armata In Slovenia, emanò il primo dicembre 1942 la Circolare 3 C con la quale si disponeva di reagire agli attacchi dei partigiani sloveni non “dente per dente”, ma “testa per dente”, cioè con una reazione superiore all’attacco ricevuto. Questo comportò la fucilazione sommaria di migliaia di “ribelli” e la distruzione di centinaia di villaggi, con la deportazione degli abitanti, che erano in gran parte anziani, donne e ragazzi, in campi di concentramento, perché considerati “pericolosi” (in quanto fiancheggiatori della resistenza slovena alla nostra occupazione) ,
Inoltre, il generale Robotti, Comandante dell’11° Corpo d’Armata in Slovenia emanò nel 1942 una Circolare nella quale stabiliva: “A qualunque costo deve essere ristabilito il dominio ed il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e si dovesse distruggere tutta la Slovenia. Si ammazza troppo poco! “.
Sono circa 1800 i nostri comandanti ed ufficiali, di cui è stata chiesta la estradizione dai Governi dei Paesi nei quali erano stati compiuti i crimini, soprattutto la Jugoslavia, la Grecia e l’Etiopia.
[1] Queste informazioni sono tratte dall’articolo a firma Wu Ming 2, pubblicato sulla rivista Internazionale del 15 febbraio 2021.